ESEMPI DI GENEALOGIA DISINVOLTA
LA LINEA DI SANGUE DEL SANTO GRAAL
STIRPE BRITANNICA L'ipotetica genealogia britannica
iniziata con l'unione di Giacomo e di Anna e che porterebbe alla Casa Reale
degli Stuart
Ipotetica discendenza arturiana secondaria
Anna=Giuseppe di Arimatea (San Giacomo)
Anna=Bran il Beato | Beli | Avallaci | Eugein | Brithguein | Dovun | Onwed |
Anguerit | Angouloyb | Gru Dumn | Dumn | Guiocein | Cein | Tegid | Patern Persut
| Octern | Cunedda Wledig ca.420 | Einina Yrth ca.460 | Cadwallan Llaw Hir |
Maelgwin ca. 542 | Rhun ca 550 | Beli ca.580 | Iago ca.610 | Cadfan Gwynedd
ca.620 = Acha, figlia del re Aele di Deira | Cadwallon II° Re di Gwynedd,
m.634 = Elena figlia di Wibba | Cadwaladr il Beato Re di Gwynedd ,654 | Edwal
Re di Gwynedd 664 ca | Rhodri Molwynog Re di Gwynedd 754 ca | Cinan Tindaethwy
754-816 | Gwynedd | Esylth | Merfyn Vrych, 825-844 | Rodri Mawr di Gwynedd 844-878
(Qui si estingue)
Ipotetica discendenza arturiana primaria. Anna = Giuseppe di Arimatea (S.Giacomo)
Anna = Bran il Beato | Panardun = Mario | Coell I° | Llleifer Mawr | Gladys
= Cadwan di Cumbria | Coel II° di Colchester | Cunedd ca. 300 | Cursalen
| Fer | Confer di Strathclyde | Gluim | Cinhil | Cynlop | Ceretic Guletic |
Cinuit | Dyfnwal Hen | Ingenach = Brychan of Manau | Lluan = Gabran di Scozia
ca.548 | Aedan Mac Gabran = Ygerna del Acqs | Artu m.603 = Morgana d'Avallon
| Modred La linea s'interrompe con la figlia di Modred. L'ipotetica discendenza
non passa dunque da Artù ma da Fredemondo uno degli eredi di Faramondo
e Argotta. Dall'altro figlio di questi, Clodione, si sviluppa la linea merovingia.
(Vedi dinastia francese)
Discendenza Casa Reale Stewart di Scozia
Fredemondo | Principe Nascine I° | Celedoin | Nascien II° di Septimania
| Galains | Jonaans | Lancelot | Bors = Viviane II° del Acqs | Bors | Lionel
| Alain | Froamido Conte di Bretagna | Frodaldo Conte di Bretagna ca 795 | Froumundo
m.850 | Flothario | Adelrado | Froubaldo m.923 | Alirado | Froumundo ca.985
| Fretaldo ca.1008 | Donada = Finlaech Mormaer di Moray m.1057 | Macbeth | Alan
Steward 1050-1097 ca | Emma ca 1070 = Walter Tahne di Lochaber | Alan di Lochaber
1088 - 1153 ca = Adelina di Uswetry | Walter Fitz Alan I° High Steward di
Scozia m.1177 = Eschyne de Molle | Alan Fitz Walter II° High Steward m.1204
= Eve di Crawford | Walter Stewart II° High Steward = Beatrix di Angus |
Alexander Stewart IV° High Steward m.1283 | Sir James Stewart V° High
Steward m.1309 = Jill du Bourg di Ulster | Sir Walter Stewart VI° High Steward
m.1326 = Marjorie Bruce | Re Roberto II° VIII° High Steward 1371-1390
= Elizabeth Mure di Rowallan | Roberto III° John Stewart Conte di Carrick
1390 - 1406 = Annabella Drummond | Giacomo I° 1406-1437 | Giacomo II°
1437-1460 = Mary de Gueldres | Giacomo III° 1460-1488 = Margaret di Danimarca
| Giacomo VI° 1488-1513 = Margaret Tudor figlia di Enrico VII° | Giacomo
V° 1513-1542 = Mary de Guise Lorraine | Maria Stuart Regina di Scozia 1542-1567
= Henry Stewart, Lord Danley | Giacomo di Scozia I° d'Inghilterra 1603 -
1625 = Anne di Danimarca e Norvegia | Carlo I° Stuart di Gran Bretagna 1625
- 1649 = Enrichetta Maria | Giacomo VII° di Scozia II° d'Inghilterra
1685 - 1688 = Maria Beatrice D'Este | Giacomo Francesco Edoardo Stuart III°
d'Inghilterra m.1766= Maria Clementina Sobieska | Carlo Edoardo Luigi Filippo
Casimiro Stuart m.1788 = Margherite O'Dea D'Audibert | Principe Edoardo Giacomo
Stuart Conte Stuarton m.1845 = Maria Emmanuela Pasquini di Vaglio | Principe
Enrico Edoardo Benedetto Stuart m.1869 = Agnes Beariz de Pescara Barberini-Colonna
da Palestrina | Principe Carlo Benedetto Giacomo Stuart m.1887 = Louise Jeanne
Francois Dalvray de Valois | Principe Giulio Antonio Enrico Stuart m.1941 =
Maria Joanna Vandenbosch di Fiandra | Giulio Giuseppe Giacomo Stewart di Annandale
1906-1985. ---------------E' indicata la linea
principale ereditaria degli Stuart. Lungo questa genealogia (dai documenti genealogici
della Royal House of Stewart) la discendenza merovingia passa attraverso Re
Macbeth, Re di Scozia (1040-1057) ucciso da Malcolm, figlio di Duncan per far
nascere intorno al 1150 la Casa Reale di Stewart. Tra i sovrani più famosi
della dinastia, re Giacomo VI°, Mary Stuart, (in questo periodo si adotta
il francesismo Stuart da Stewart) Carlo I°. La famiglia perde il trono di
Gran Bretagna in modo definitivo nel 1688 con Giacomo VII°. I successivi
eredi si sposarono con nobili di Case occidentali: polacche, italiane, francesi,
belghe. La Casa Stewart sembra estinguersi con Giulio Giuseppe Giacomo Stewart
di Annandale, morto nel 1985 che non lascia eredi maschi. Ma il giovane conte
Micheal La Fosse (nato a Bruxelles nel 1958), figlio di Renee Julienne Stewart
(n.1934, figlia di Giulio Giuseppe Giacomo) e di Gustave La Fosse (n.1935) conte
de Blois, nel 1976 viene accolto in Scozia dove gli vengono conferiti i titoli
reali di Principe Michele Giacomo Alessandro Stewart. Nel 1996 ha pubblicato
il libro "Scozia, La monarchia perduta" nel tentativo di ricostituire
la successione dinastica. Anche la linea genealogica degli Stewart si sviluppa
sulla casa Merovingia, da Fredemondo, secondo figlio di Faramondo e Argotta.
Non vi sono invece collegamenti diretti e attendibili dalla discendenza da Artu.
Lo stesso matrimonio tra Anna e Bran il Beato, da cui discenderebbe Artu, sarebbe
avvenuto tra Anna e un uomo ritenuto il primo a portare la cristianità
nelle isole britanniche: un marito ideale da associare alla figura di origine
cristiana di Anna. Si può quindi affermare che il "Sangreal"
non ha origini dai tempi di Gesù ma dalla dinastia Merovingia, fondata
da Meroveo nel 456 d.C.
la Famiglia Allargata di Gesu'------------------- La Ricerca del Santo Graal -------------------- Enigma Gesu'-Le Fonti Dissepolte
Non è difficile immaginare che Enrico VIII, nella foga di palesare una propria discendenza da David, Gesù, Elena e Costantino, per sganciarsi dal cristianesimo cattolico romano, abbia voluto dare una impronta tutta inglese alla nuova Chiesa Anglicana ignorando totalmente altre fonti storiche. (Esempio: Elena, principessa inglese discendente di Caractaco - fonti storiche dichiarano all'unanimità che Elena fosse nata in Bitinia, nulla di più lontano dall'Inghilterra.). "Flavia Iulia Helena, nata in Bitinia intorno al 250 d.C., era una donna di umili origini. Concubina di Costanzo Cloro (prima moglie secondo alcune fonti, ripudiata in un secondo tempo, secondo altre) da cui ebbe Costantino, venne proclamata Augusta dopo il 324 ed ebbe grande influenza sulla politica religiosa del figlio."
BITINIA
Tratto da Wikipedia: "Diverse antiche città della regione si trovavano lungo le fertili coste della Propontide (ora nota come Mar di Marmara): Nicomedia, Calcedonia, Cio ed Apamea. La Bitinia comprendeva anche Nicea, famosa perché vi si tenne il primo concilio di Nicea e perché vi fu formulato il credo niceno-costantinopolitano". "Di Elena i dati biografici sono scarsi, nacque verso la metà del III secolo forse a Drepamim in Bitinia, cittadina a cui fu dato il nome di Elenopoli da parte di Costantino, in onore della madre. Elena discendeva da umile famiglia e secondo s. Ambrogio, esercitava lufficio di stabularia cioè locandiera con stalla per gli animali e qui conobbe Costanzo Cloro ufficiale romano, che la sposò nonostante lei fosse di grado sociale inferiore, diventando così moglie morganatica." A mio parere Costantino non avrebbe avuto motivi per nascondere le origini materne.
STIRPE FRANCESE La teoria sulla Dinastia che
porterebbe fino ai Merovingi e ai Conti di Razès.
Nel 1982 uscì 'Holy Blood, Holy Graal', il libro di Micheal Baigent,
Richard Leigh, Henry Lincoln, tre famosi giornalisti della Bbc, che realizzarono
un dossier sui movimenti eretici medievali, sulla stirpe carolingia, sulla vita
di Gesù e sui libri testamentari. I tre autori, credendo autentici alcuni
documenti che gli vennero forniti, ricostruirono la suggestiva storia della
prosecuzione dinastica di Gesù. Successivamente al 1982 sono usciti centinaia
di libri, alcuni decisi a contestare decisamente la tesi della prosecuzione
dinastica, altri invece a rafforzare le ricerche sulla vita di Cristo attraverso
due generi: lo studio sui papiri di Qumran e sul Vangelo Apocrifo di Filippo,
un filone più narrativo e suggestivo, in cui i temi e le implicazioni
sono i Catari, i Templari, l'Ordre de Sion e Rennes-le-Chateau. Ma tutte queste
pubblicazioni, ognuna che cerca di trovare una nuova teoria, non fanno che confondere,
non ci indicano la direzione giusta. Attualmente la difficoltà è
così il saper distinguere tra l'editoria esoterico-popolare, con le sue
pubblicazioni sui Templari e su Rennes-le-Chateau e sui testi che riportano
invece una ricostruzione storica. Molte teorie che sono state elaborate sulla
successione messianica e sui movimenti medioevali sono chiaramente suggestive
ma non verificabili. La storia e i libri testamentari ci aiutano invece a dare
delle interpretazioni e delle certezze per ricostruire un quadro generale della
'Queste du Graal' e comprendere cosa c'è di vero. Secondo la letteratura
britannica accettata, l'attuale erede della Casa Reale di Stewart è il
principe Albrecht di Baviera che avrebbe diritto ai titoli scozzesi in virtù
delle ultime volontà testamentarie del fratello minore di Carlo Edoardo,
il cardinale Enrico, duca di York. Questo testamento presumibilmente nominava
Carlo Emanuele IV di Sardegna a successore degli Stuart. Attraverso vari matrimoni
con discendenti femminili del fratello di Carlo Emanuele, Vittorio Emanuele
I°, l'attuale Albrecht di Baviera è diventato l'erede comunemente
citato, basandosi su una discendenza piuttosto tenue da Enrichetta, figlia di
Carlo I°. Ma il fatto è che il testamento del cardinale Enrico
Stuart non nominava Carlo Emanuele suo successore.
Dal momento in cui l'Elettore di Hannover salì al trono come Giorgio
I° di Gran Bretagna nel 1714, divenne politicamente conveniente sopprimere
o nascondere una buona quantità d'informazioni su certe famiglie, valorizzando
al tempo stesso il lignaggio di altre. La Casa di Stuart fu attaccata in modo
particolare per giustificare la nuova linea di successione germanica. Carlo
Edoardo Stuart sposò nel 1772 la principessa Luisa Massimiliana, figlia
di Gustavo, principe di Stolberg-Guedern. Nel 1784, tuttavia, ottenne la dispensa
papale per il divorzio in seguito alla relazione amorosa di Luisa con il poeta
italiano Vittorio Alfieri. Gli archivi degli Stuart a Roma rivelano che nel
novembre 1785 Carlo si risposò con la contessa De Massillan nella chiesa
dei Santi Apostoli a Roma. Era Margherita Maria Teresa O'Dea d'Audibert de Lussan:
cugina per discendenza del prozio di Carlo, il re Carlo II°. Nel novembre
1786, a trentasette anni, la contessa diede alla luce un figlio, Edoardo Giacomo
Stuart, che divenne noto come il conte Stuarton. Sebbene non fosse un segreto
in Europa, la notizia della nascita del legittimo figlio ed erede di Carlo Edoardo
venne immediatamente soppressa dal governo degli Hannover a Westminster (Londra).
Nel 1784 Carlo Edoardo aveva fatto testamento nominando suo erede il proprio
fratello, cardinale Enrico, duca di York. Carlotta di Albany (1754), nata dall'unione
di Carlo nella relazione con Clementina Walkinshaw, sarebbe dovuta essere la
sola beneficiaria del patrimonio. Ma il testamento del padre venne annullato
da un altro fatto redigere prima della sua morte. Al fine di consolidare la
posizione del nuovo re, Giorgio III°, il parlamento georgiano nascose l'esistenza
del testamento originario e pose fine al problema della popolarità degli
Stuart in Gran Bretagna dichiarando estinto il ramo scozzese, che aveva tra
l'altro contribuito alla scissione degli Stati Uniti durante la Guerra d'Indipendenza.
Molti scozzesi esiliarono in Nord America. Qui si voleva creare un'alternativa
alla monarchia e alla dittatura: un sistema repubblicano per liberare soprattutto
la nazione inglese dal dispotismo della Casa di Hannover che regnava in Gran
Bretagna. L'idea era un sistema repubblicano fondato sul principio della fratellanza,
tuttavia una società ideale aclassista non può esistere in un
ambiente, come quello inglese, che promuoveva l'ostentazione di eminenza e superiorità
in base alla ricchezza e al possesso. In massima parte, i responsabili della
Costituzione degli Stati Uniti e della sua ispirazione morale erano rosacrociani
e framassoni: personaggi illustri come George Washington, Benjamin Franklin,
Thomas Jefferson, John Adams e Charles Thompson. Quest'ultimo, che disegnò
il Gran Sigillo degli Stati Uniti d'America, era appartenente all'"American
Philosophical Society" di Franklin, l'equivalente del "Collegio Invisibile"
della Gran Bretagna. Le figurazioni del sigillo sono direttamente legate alla
tradizione alchimistica: l'aquila, il ramo di olivo, le frecce e i pentagrammi
sono tutti simboli segreti di contrari: il bene e il male, maschi e femmina,
guerra e pace, buio e luce. Sul verso (ripetuto sulla banconota americana) è
raffigurata la piramide tronca, indicante la perdita dell'Antica Sapienza, recisa
e costretta alla clandestinità. Ma sopra di essa vi sono i raggi di luce
dell'eterna speranza, che avvolgono l'"occhio onniveggente", usato
come simbolo durante la Rivoluzione Francese. La Costituzione Americana traccia
un cammino ideale verso una forma di democrazia dove il governo del popolo è
per il popolo, ignorando le distinzioni di classe, dove i ministri del Governo
venissero eletti con la maggioranza dei voti popolari, ma che loro azioni fossero
contenute entro i limiti della Costituzione. Poiché la Costituzione appartiene
al popolo, il suo difensore (secondo l'idea di Gorge Washington) dovrebbe essere
un monarca legato da un impegno verso il popolo e non verso la politica o la
religione. Attraverso il naturale sistema ereditario (essere nato ed educato
per quel compito), ogni successore assicurerebbe coerenza e una "ininterrotta
continuità" di rappresentanza attraverso i successivi governi. A
questo riguardo tanto i monarchi quanto i ministri sarebbero i servitori della
Costituzione per conto della Comunità del Regno. Tale concetto di governo
morale sta proprio al centro del Codice del Graal e rientra nelle possibilità
di ogni Stato nazionale civilizzato, dove nessun ministro può pretendere
di diffondere onestamente un ideale di uguaglianza nella società quando
lo stesso possieda qualche forma di predominio nella società in cui opera.
Il precetto del Sangreal va quindi inteso nella capacità di saper vivere
per gli altri senza sentirsi umiliati: è l'educazione dell'uguaglianza
e del servizio principesco, un eterno precetto che può creare maggiore
armonia e unità.
LUOGO DI NASCITA DI CRISTOFORO COLOMBO
TRATTO DAL LIBRO "LA VERA STORIA DI CRISTOFORO COLOMBO" DEL FIGLIO FERNANDO COLOMBO
Fratelli Melita editori
Da qualche anno la questione della patria di Colombo ritorna periodicamente all'onore della discussione internazionale con ipotesi ed affermazioni impreviste e meravigliose. Esse debbono essere giudicate con severità, perché appaiono frutto di una profonda ignoranza o di insigne malafede. La tradizione designava Colombo come ligure e italiano sia che lo dicesse nato a Genova o a Savona, a Cogoleto o a Nervi, a Quinto o a Bogliasco, egli risultava sempre ligure; e se l'orgoglio municipale lo pretendeva anche nato nel piacentino, in Lombardia o nel Castello di Cuccaro nel Monferrato, egli era pur sempre considerato un italiano. Traendo pretesto da queste contese campanilistiche nostrane, gli stranieri intervennero nella discussione e, un pò alla volta, diedero origine a diverse tesi, per cui Colombo appare ora greco e ora inglese, ora francese, portoghese, spagnolo, catalano, corso, svizzero, etc. La Spagna non si accontenta di un solo Colombo spagnolo e ne possiede diversi, il Colombo gallego, quello estremeno, quello catalano... ogni giorno in Spagna fabbricano un Colombo nuovo. (curiosità: nel libro Fernando riporta che, per il clima malsano di Genova, la madre, scelse di partorire Cristoforo a Bettole, luogo d'origine della sua famiglia, assai più ameno).
L'ORIGINE (IMPROVVISATA) DEI COGNOMI: QUATTROCCHI
Sembrerebbe tipicamente siciliano anche se presenta un grosso nucleo, probabilmente non secondario, in provincia di Roma, dovrebbe derivare da soprannomi originati dal fatto che il capostipite portasse gli occhiali. Si deve ricordare, con questo cognome, Fabrizio Quattrocchi, Medaglia d Oro alla memoria al Valor Civile, massacrato dai terroristi islamici, che, prima di essere ucciso, pronunciò la fatidica frase: "vi faccio vedere come muore un italiano". (nota: è difficile immaginare che ai tempi remoti a cui risalgono i documenti della Necropoli Quattrocchi di Enna del VI sec. A.C. ed ai documenti del tribuno Paulus de Quatuor Oculi (forse in epoca romana), qualcuno portasse gli occhiali!)
PIETRO CAVALLINI Artefice del Rinnovamento Romano della Tradizione Pittorica
Ricordato dal Vasari tra gli allievi di Giotto
per mere ragioni campanilistiche (che volevano sostenere la superiorità
della scuola toscana su quella romana), Cavallini pittore appartiene in realtà
alla generazione precedente a quella del maestro fiorentino. Poche sono le notizie
biografiche che lo riguardano, e anche quelle poche sono contraddittorie, fondate
per lo più sulle testimonianze lasciate dal Ghiberti nei suoi Commentari.
Nato a Roma intorno al 1240, Pietro apparteneva forse alla nobile famiglia dei
Cerroni (residente nel rione Monti, nell'area di S. Pietro in Vincoli): ma questo
dato è stato dedotto unicamente da un atto di compravendita del 2 ottobre
del 1273 - ora nell'Archivio Liberiano di S. Maria Maggiore (Orig. Pergamena
D, II, 48) - in cui è ricordato un Petrus dictus Cavallinus de Cerrònibus,
che compare come testimone e nel quale si è voluto identificare il pittore
romano, riconoscendo in Cavallinus una sorta di soprannome. Lavorò a
Roma, nel Regno di Napoli e forse in Umbria. Non abbiamo dati certi riguardo
alla sua morte, che presumibilmente avvenne dopo il 1325.
Stefania Falasca, Intervista Bruno Zanardi .!!!
Nel cantiere medioevale i nomi non contavano I documenti mostrano che nella
realizzazione di un ciclo pittorico lavoravano parecchi artisti, sotto la guida
del capobottega. Bruno Zanardi ci riporta nella Roma della fine del 1200.
Sei anni fa, nel 1994, veniva portata a termine la scoperta degli affreschi
del Sancta Sanctorum a Roma. Una scoperta eccezionale per la pittura italiana
del Duecento destinata ad avere forti ripercussioni nella comprensione della
storia dellarte di quel periodo. A quellimportante restauro aveva
lavorato Bruno Zanardi. Appena due anni più tardi, con la cura di Federico
Zeri, Zanardi diede alle stampe un volume che segnò una svolta storica
proprio nella comprensione dellorigine di tutta la pittura moderna occidentale:
Il cantiere di Giotto. Unanalisi dettagliata delle Storie di san Francesco
ad Assisi che mostra come questi affreschi videro poco, anzi nulla, la mano
di Giotto, e che apre così un nuovo filone di ricerca il cui baricentro
è significativamente diverso. Roma, appunto. A Bruno Zanardi abbiamo
chiesto di commentare la nuova scoperta dellAracoeli. Allora, professore,
una nuova scoperta di affreschi tardo duecenteschi a Roma. Cosa ne pensa?
BRUNO ZANARDI: È davvero troppo presto per
trarre conclusioni da questi pochi frammenti di pittura, ma alcune osservazioni
Possono essere fatte: innanzitutto bisogna dire che si tratta di una scoperta
di estrema importanza sia perché ritrovamenti di cicli di affreschi di
questepoca a Roma sono eventi rarissimi, sia perché riportano al
centro dellattenzione critica il problema di Roma, cioè di quella
grande stagione pittorica che si è espressa a Roma alla fine del Duecento
e che è stata sottovalutata.
Lei ha avuto modo di vedere questi affreschi?
ZANARDI: Sì. Posso dire che la qualità
pittorica è in alcune parti altissima, molto simile a quella degli affreschi
di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastèvere. Ci sono anche strettiSSime
convergenze, dal punto di vista formale, con il ciclo Assisiate, tanto che alcune
parti decorative e spaziali, come ad esempio la torre scorciata nella parete
laterale sinistra, sono addirittura assolutamente identiche. Questa stessa torre
si ritrova infatti citata nella Volta dei Dottori nella Basilica Superiore di
Assisi.
È possibile quindi che gli affreschi dellAracoeli siano antecedenti
quelli di Assisi?
ZANARDI: Guardi, a parte il fatto che fare un discorso
di datazione adesso è assolutamente prematuro inoltre reperire documenti
medioevali a riguardo è difficilissimo. Un caso eccezionale è
stata la datazione sicura degli affreschi del Sancta Sanctorum perché
a commissionarli è stato il papa Niccolò III, pontefice dal 1277
al 1280. La questione non ha comunque importanza, perché a mio parere
il punto è un altro. Il punto è che si tratta di cantieri che
parlano un linguaggio simile, per quanto si può vedere nei risultati
formali; anzi, a mio avviso potrebbe trattarsi dello stesso cantiere, lo stesso
cantiere che ha operato sia a Roma, nella chiesa francescana allAracoeli,
sia ad Assisi, nella Basilica francescana, con alcune maestranze differenti.
Può spiegare meglio?
ZANARDI: Voglio dire che, per affrontare correttamente
lo studio di questi affreschi, si deve ragionare in termini di cantieri, perché
nel Medioevo, si ragionava in questi termini. Nel cantiere medioevale, i nomi
non contavano. E i documenti medioevali, (e non solo) ci dimostrano che, i pittori
al lavoro nei cantieri erano sempre moltissimi. È chiaro che cera
un capobottega, ma questi lavorava di volta in volta con persone diverse, e
dipendeva a sua volta, dagli architetti. E gli architetti, proprio perché
lavoravano su ciò che era più costoso, rischioso e difficile,
vale a dire la costruzione o il riadattamento delle cattedrali, erano anche
quelli, che organizzavano il lavoro dei pittori, e degli scultori. Nel caso
dellAracoeli non si può, ad esempio, non prendere in considerazione
la figura di Arnolfo di Cambio, capocantiere per eccellenza,della Roma e della
Firenze di fine Duecento, visto che, egli guida tutte le più importanti
imprese di architettura condotte in quegli anni, in queste due città,
e quindi probabilmente, anche quelle relative, alla chiesa dellAracoeli.
È una realtà complessa, che tuttavia, può essere affrontata
ragionevolmente, solo in questi termini, altrimenti, si fa una storia dellarte,
dei nomi, una visione evoluzionistica dellarte, quella, in sostanza, ereditata
dal Vasari, e che in troppi ancora continuano a fare. Se, è lo stesso
cantiere, ad operare nelle due chiese francescane, di Assisi, e Roma, come lei
dice, potrebbe essere, unulteriore conferma, che il ciclo degli affreschi
delle Storie di san Francesco, non sia di Giotto .
ZANARDI: Senta, non voglio riprendere ora, una
disputa secolare, sul problema Giotto o non Giotto, ad Assisi, di difficile
risoluzione, con implicazioni di argomenti insormontabili. Tuttavia, analizzando
da vicino, la tecnica pittorica di quegli affreschi, e i modelli ,utilizzati
per la realizzazione delle figure, si può vedere, lopera di almeno
tre diversi maestri, tre diversi pittori. Se da un lato, si Possono vedere,
cantieri che parlano una lingua simile, tra Roma, e Assisi,dallaltro cantieri
che parlano una lingua altrettanto simile in quel periodo a Firenze, non ce
ne sono. Dunque, il problema delle Storie di san Francesco, è infinitamente
più ragionevole pensarlo, in un ambito romano, che non in un ambito fiorentino,
e giottesco, perché è ridicolo pensare, che una basilica di commissione
romana, papale, affrescata nellultimo decennio del Duecento, possa essere
dominata, da figure fiorentine. La cultura figurativa fiorentina, toscana, degli
anni Ottanta del Duecento, è sostanzialmente, bizantineggiante; di gran
qualità, ma arcaica. Il suo massimo livello, si esprime in Cimabue, e
Giotto, come è noto, si è formato in questo ambiente. E, non poteva
ancora il giovane Giotto, in quegli anni, aver maturato una sua lingua figurativa,
tale da poter inchiodare a se stesso, tutti quelli, che gli giravano intorno.
È la storiografia dei nomi, nella visione toscanocentrica imposta dal
Vasari, sulle origini dellarte moderna in Italia, ad insistere sulle Storie
di san Francesco come opera, esclusiva di Giotto: una sopravvalutazione, che
ha portato a delle conseguenze ridicole.
Quali ad esempio?
ZANARDI: Come è noto e riconosciuto da tutti
gli studiosi, ad esempio, ci sono delle differenze enormi tra gli affreschi
delle Storie di san Francesco e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova
(di cui ora si sta curando una mostra), questi ultimi unanimemente attribuiti
a Giotto; e ci sono delle differenze enormi soprattutto con gli affreschi delle
cappelle della Maddalena e di San Nicola nella Basilica Inferiore di Assisi.
Gli storici dellarte per affermare con insistenza che la leggenda francescana
è opera di Giotto hanno dovuto dire che i grandi capolavori delle cappelle
della Maddalena e di San Nicola non sono dellartista (tuttal più
della sua bottega), fino a quando, recentemente, è stato ritrovato un
documento del 1309 che attesta inequivocabilmente che quelli sono opera di Giotto.
Ma il fatto paradossale di questa vicenda storiografica è che poi Giotto
è veramente un genio, è lui veramente il genio della nuova lingua
dellarte occidentale, quello che si manifesta in tutta la sua straordinarietà
nella Cappella degli Scrovegni, e nei capolavori delle due cappelle, nella Basilica
Inferiore di Assisi. Ma non è quello delle Storie di san Francesco, che
restano, rispetto a questi capolavori eccelsi, ancora rozze. Allora, tornando
a quanto dicevamo della Firenze di quel periodo, se larte toscana di quegli
anni era ancora sostanzialmente bizantineggiante, a Roma non era così.
A Roma, in quegli anni, cerano degli artisti che dipingevano con unabilità
altissima ed erano innovativi dal punto di vista del verismo e del naturalismo.
E certo è che il giovane e talentuosissimo Giotto, venendo a Roma sul
finire del secolo, ha visto queste opere straordinarie, che erano davvero unaltra
cosa, rispetto a quelle della sua Firenze, rispetto, a Cimabue, e ha visto come
lavoravano questi pittori, con i quali non poteva non confrontarsi.
Chi erano questi Artisti Romani ??? ZANARDI:
Si conoscono solo alcuni tra i tanti: Pietro Cavallini, Filippo Rusuti, Jacopo
Torriti. Il fatto che se ne conoscano pochi è dovuto alla ragione che
dicevo prima, cioè che i nomi nei cantieri a quellepoca non interessavano
e, in altra misura, alla sfortunata penuria di opere e notizie documentarie
conservatesi, ma certo anche al citato ferreo mito toscanocentrico. Di Pietro
Cavallini, ad esempio, sappiamo, come scrive Lorenzo Ghiberti, «che fu
in Roma maestro dottissimo in fra tutti gli altri maestri». Vasari ci
dà qualche notizia riguardo alla sua vita, dicendo che è vissuto
a lungo e che era «divotissimo e amicissimo de poveri». Sappiamo
che Cavallini a Roma ha fatto grandi opere in molte chiese importanti: a San
Pietro, a Santa Maria in Trastèvere, a Santa Cecilia, nella chiesa di
San Francesco a Ripa, a San Crisògono, nella Basilica di San Paolo fuori
le Mura, allAracoeli. Si tratta di decine e decine di metri quadri di
mosaici ed affreschi. E quel poco che purtroppo oggi si può vedere di
questo grande pittore (come, ad esempio, laffresco del Giudizio universale
nella Basilica di Santa Cecilia in Trastèvere, datato 1292-93), è
di un realismo impressionante.Le sue figure di una grandezza straordinaria non
sono più Icone, hanno la presenza plastica delle opere anticoromane.
Ma già negli affreschi del Sancta Sanctòrum che risalgono, rispetto
a questa opera del Cavallini, a più di dieci anni prima, si Possono vedere
elementi di innovazione, elementi realistici, di verismo, saggi di prospettiva
e tentativi di caratterizzazione dei volti. Dunque il Realismo nasce a Roma
!!! ZANARDI: Il dato di fatto, è che nellarco
di un trentennio, a Roma si rifanno le decorazioni di quasi tutte le chiese,e
di tutte e quattro le basiliche patriarcali, cioè delle chiese più
importanti della cristianità. E si rifanno in questo modo. Ma se è
vero che il nuovo linguaggio nellarte si preannuncia a Roma, quali Possono
essere le ragioni ??? ZANARDI: Il dòminus
della vicenda credo vada ricercato nella presenza dellarte anticoromana
e tardoromana. Bisogna pensare che cosa era Roma in quello scorcio di secolo,
colma di statue antiche, di tombe di epoca classica scoperchiate con dentro
dipinti di un verismo assoluto, di unabilità prospettica assoluta,
pitture eseguite con una perfezione formale assoluta come solo la civiltà
classica ha raggiunto; e poi cè la presenza massiccia dellarte
paleocristiana, i mosaici, gli affreschi delle catacombe. Una fonte inesauribile
di confronto, unabilità e un virtuosismo tecnico con cui questi
artisti si sono misurati. Tuttavia il fatto dellintroduzione di questi
elementi nelle raffigurazioni si intreccia con quello della committenza. Ad
un certo punto si comincia a richiedere di cambiare il repertorio delle immagini.
Si chiede ai pittori di non fare più delle raffigurazioni simboliche
come erano quelle della cultura bizantina. E si deve pensare che i committenti
spendevano somme enormi. Il rifacimento di Jacopo Torriti dellàbside
di San Giovanni in Laterano, ad esempio, viene pagato la bellezza di duemila
fiorini doro. Se dunque unopera veniva pagata tanto, doveva rispettare
quel valore nella resa formale. I mosaici costavano una fortuna, e nella maggior
parte dei casi le decorazioni erano eseguite in mosaico. A Roma insomma cerano
i soldi, e il mercato, come si dice, aguzza lingegno. Federico Zeri diceva
che questa grande rivoluzione è maturata a Roma, perché era logico
che un cambiamento del genere avvenisse in quella che era la capitale del mondo
cristiano; ed aggiungeva che le probabili ragioni di questo ritorno alla tridimensionalità,
ai dati empirici, fisici, alla cura degli aspetti corporali, siano da identificare
nella terribile minaccia rappresentata da certe eresie gnostiche che in quegli
anni stavano prendendo piede in Italia. ZANARDI:
Può darsi che Zeri avesse ragione nel dire che il passaggio dalla pittura
medioevale a quella moderna potrebbe essere legato in qualche modo al tentativo
della Chiesa di opporsi alle dottrine gnostiche; è uno dei possibili
fattori che potrebbero spiegare perché gli artisti vengono chiamati a
cambiare il repertorio delle immagini. Bisogna poi ricordare che lintero
rifacimento delle decorazioni nelle chiese romane si svolge alla vigilia del
primo Giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII. Tuttavia i grandi cambiamenti
non avvengono per andare contro. E questi mutamenti potevano non avvenire a
Roma. Non è detto che tutto ciò doveva per forza accadere a Roma.
Benedetto Antèlami, per esempio, allinizio del 1200, quindi quasi
un secolo prima del periodo in questione, fa a Parma delle sculture di un realismo
straordinario copiando opere tardoromane di provincia. Dunque, restiamo semplicemente
al dato e prendiamo finalmente in considerazione, anche alla luce di questo
nuovo ritrovamento nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli, quello che è
successo qui a Roma in quegli anni, in quegli ultimi anni del Duecento. (1 novembre
2000).
"LAracoeli
dei Pittori Romani". Il ritrovamento di un eccezionale affresco
nella chiesa, che fu per secoli il cuore della vita cittadina di Roma, ha riacceso
un antico dibattito. Dove iniziò la rivoluzione pittorica avvenuta a
cavallo tra il XIII e il XIV secolo in Occidente? Diceva Roland Barthes che
davanti alle opere darte, quelle vere, lunica cosa che puoi dire
è che sono belle. E aggiungeva che le parole, anche i concetti più
articolati e profondi, risultano sempre delle approssimazioni. Non gli si può
dare torto. Basta vedere certe immagini di Giotto. La scena della Natività
nella Cappella degli Scrovegni a Padova ad esempio, il particolare della nascita
di Gesù. Come si può spiegare quellintensità nei
gesti, quello sguardo una tenerezza struggente Si tratta di un capolavoro. Proprio
come quello che sta venendo alla luce in una delle più note chiese romane:
"Santa Maria in Aracoeli", in Campidoglio.
Qui, in questa splendida chiesa francescana, per secoli cuore della vita cittadina
di Roma, in quella che sembrava la cappella più modesta, dedicata a san
Pasquale Baylon, e che fino a ieri era dominata dal dipinto di un pittore spagnolo
della seconda metà del Seicento, è stato ritrovato un affresco
della fine del Duecento. Una Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista
e Giovanni Evangelista che rifulgono ancora per loro purissimo che fu
steso sulle aurèole rialzate delle sacre figure. Più in là
una figura di Cristo accompagnato da angeli e da san Pietro, ed ancora dei festoni
sorretti da putti alati, la torre di una città perfettamente scorciata,
di colore rosso, del tutto analoga ad una presente nella Basilica Superiore
di Assisi. Sono solo frammenti, appena un quindicesimo del totale, di un grande
affresco che ricopre interamente le pareti della cappella e che è ancora
nascosto sotto le ridipinture e gli stucchi. Ma questi primi Frammenti, giunti
a noi in condizioni quasi perfette, già bastano a far ritenere che si
tratta di unopera eccelsa del nostro Medioevo. La scoperta è recente.
Il giovane studioso, esperto di pittura romana del Duecento, cui va il merito
di questo importante ritrovamento, è Tommaso Strinati, figlio di Claudio
Strinati, soprintendente ai Beni storici e artistici di Roma. Allinizio
di aprile, Strinati, coadiuvato da Claudia Tempesta, responsabile dei restauri
alla chiesa dellAracoeli, e da Marina Righetti, direttrice della scuola
di specializzazione in Storia dellarte medioevale e moderna dellUniversità
La Sapienza di Roma, ha iniziato ad investigare su alcune cappelle della navata
destra dellAracoeli,e sul transetto dove è attestato che lavorò
un grande pittore romano di fine Duecento, Pietro Cavallini, del cui lavoro
sono rimaste poche tracce, e di cui è andato completamente distrutto
laffresco absidale demolito nel Cinquecento. Gli studiosi si sono soffermati
sullultima cappella della navata destra dove si ritiene possibile un intervento
di Arnolfo di Cambio e dove trentanni fa erano già stati fatti
dei saggi di restauro. Quei saggi rilevarono la presenza di una decorazione
in affresco di epoca medioevale, ma i lavori non furono proseguiti. Alla fine
dello scorso luglio la scoperta, dietro la tela daltare, della Madonna
col Bambino. Strinati, seppure con grandiSSima cautela, ha già espresso
delle ipotesi a riguardo. «Il soggetto mariano che lascia supporre un
ciclo di affreschi dedicato alla Madonna» afferma, «credo rappresenti
una dormitio Virginis. La tecnica pittorica, la tessitura cromatica con la quale
è eseguito laffresco, mi riferisco soprattutto al volto del Bambino,
caratterizzato da una fortissima presenza plastica, fa ritenere possibile la
mano di un pittore di strettissimo ambito romano, cavalliniano forse, per le
forti analogie sia con le figure dipinte da Pietro Cavallini nella Basilica
di Santa Cecilia in Trastèvere, sia con il grande anonimo detto il Maestro
dIsacco nella Basilica Superiore di Assisi; e ritengo non azzardata, anche
se prematura, una datazione agli inizi del 1290». «Le pitture»,
aggiunge inoltre, «per la loro ricchezza, lasciano supporre un patronato
gentilizio, ad esempio dei Colonna. Ci vorranno tuttavia alcuni anni prima di
riportare alla luce lintera decorazione e quindi formulare plausibili
risposte». Ma se i lavori sono appena cominciati, la discussione è
già aperta. Con tutti i dibattiti e le polemiche del caso. L8 novembre
si sono riuniti allAracoeli gli esperti in occasione della presentazione
ufficiale del ritrovamento presieduta dal ministro dei Beni culturali Giovanna
Melandri. Già, perché queste prime tracce riemerse dal nero scatolone
del tempo mostrando strette analogie con le Storie di san Francesco ad Assisi,
vanno a toccare un campo minato, il vero casus belli per eccellenza della storia
dellarte. Da circa un secolo, infatti, due fazioni, la scuola di pensiero
toscana e quella romana, si combattono sostenendo, una, che il suo autore è
Giotto e quindi che la nuova lingua dellarte italiana nasce a Firenze,
laltra, che il suo autore è un pittore romano, e quindi quella
stessa nuova lingua nasce a Roma a partire dal grande anonimo detto il Maestro
dIsacco, dalle scene di quel suo soggetto che restano nella Basilica Superiore
di Assisi. Casus belli che proprio in questi ultimi anni, dopo la scoperta a
Roma degli affreschi del Sancta Sanctorum con le tesi avanzate dalla storica
dellarte Angiola Maria Romanini e soprattutto dopo gli ultimi studi compiuti
da Bruno Zanardi e Federico Zeri sulle Storie di san Francesco ad Assisi, ha
visto riaccendersi la battaglia. Ma non si tratta solo di dispute specialistiche.
Non si tratta solo di andare ad aggiungere un nuovo capitolo alla storia dellarte,
bensì di scompaginare totalmente tutta una visione, una lettura che da
secoli, a partire dal Vasari, vede in Giotto il primo indiscusso inventore del
nuovo moderno linguaggio della pittura occidentale, il faro isolato della rinascita
italiana. Se sarà dunque accreditata la datazione antecedente agli affreschi
delle Storie di San Francesco ad Assisi, e se vi sarà riconosciuta la
mano di un pittore romano come Pietro Cavallini, il primato di Giotto non sarà
più tale. E non sarà Firenze ma Roma a detenere questo primato.
«Purtroppo, della pittura romana, della scuola romana di quel periodo
si conosce pochissimo» spiega Strinati. «Eppure dal 1250 al 1300
Roma assiste ad una stagione che deve esser stata straordinaria. Basta pensare
che nellarco di un ventennio vengono rifatte le decorazioni di tutte e
quattro le basiliche patriarcali e di tutte le più importanti chiese
di Roma. Cantieri enormi in cui lavoravano decine di maestranze, delle quali
non sappiamo nulla o quasi. Di alcuni pittori come Filippo Rusuti, Jacopo Torriti,
Pietro Cavallini non si conoscono che poche opere. Perché se della pittura
di Giotto moltissimo si è conservato, anche se si tratta di opere posteriori
alla leggenda francescana, della pittura romana di fine Duecento, contemporanea
al ciclo francescano, non è rimasto quasi nulla». Secoli di renovationes
Urbis uniti a qualche disastro, come lincendio che ha demolito la Basilica
di San Paolo, hanno infatti provocato la distruzione di chilometri quadrati
di mosaici e affreschi, lo smembramento di centinaia di monumenti e la manomissione
fino alla cancellazione di decine e decine di architetture. Vale a dire la sostanziale
cancellazione dellimmenso cantiere di architettura, scultura e pittura
che fu Roma alla fine del Duecento, alla vigilia del primo Giubileo del 1300
indetto da Bonifacio VIII, dove vengono a lavorare decine e decine di artisti
e dove convergono anche noti maestri toscani tra cui Cimabue, Arnolfo di Cambio
e Giotto. Da qui soprattutto lestrema importanza e rarità di questo
ritrovamento. Potranno, dunque, questi affreschi, che rimettono con forza laccento
sulla questione romana, far luce su quella grande stagione pittorica che si
è espressa a Roma alla fine del Duecento? Potranno far chiarezza su quegli
stretti legami che uniscono Roma ad Assisi? E non sarà proprio lAracoeli
un laboratorio avanguardistico dove si incontrano maestranze toscane e romane
sviluppando quelle soluzioni che si ritroveranno ad Assisi? E non sarà
Cavallini il maestro di Giotto, il pittore romano dal quale Giotto impara a
dipingere figure di straordinario realismo? Tutte domande che forse potranno
trovare una risposta anche dalla definitiva riscoperta del ciclo completo degli
affreschi dellAracoeli, augurando che non valga, almeno in questo caso,
quanto diceva Socrate: «I prodotti della pittura ci stanno davanti come
se vivessero, ma se li interroghi, mantengono un maestoso silenzio». "La
chiesa di Santa Cecilia in Trastèvere" . Difficilmente si
potrebbero trovare chiese medievali in Roma più rilevanti per capolavori
d'arte di questa bellissima chiesa trasteverina. La vicenda del martirio di
Cecilia, nobile romana, è notissima, e rammemorata dalla scultura di
Stefano Maderno sotto l'altar maggiore di cui diremo oltre. La basilica sorge
sulle fondamenta di una casa romana, tuttora visibile, che la tradizione vuole
essere quella della famiglia di Cecilia, e che scavi recentissimi hanno rivelato
essere stata prestissimo adibita al culto cristiano, con tracce di un raro fonte
battesimale, il che testimonia dell'importanza del luogo di culto cristiano
fin dalla tarda antichità, luogo di culto la cui prima menzione risale
peraltro al 499. La costruzione della basilica ancor oggi visibile è
opera di Pasquale I (817-824), che la fece splendidamente decorare, mentre il
portico, il campanile e una parte del convento sono opera di Pasquale II (1099-1118).
Una seconda, ricca fase decorativa dell'edificio si ebbe intorno al 1290, con
gli affreschi di Pietro Cavallini e il ciborio di Arnolfo di Cambio. Ulteriori
restauri si ebbero nel quattrocento e nel cinquecento, oltre al ritrovamento
sensazionale all'epoca, del corpo della santa nel 1599, su cui ci soffermeremo
più avanti. Una forte modifica dell'interno fu effettuata nel 1724, ma
soprattutto lasciò il segno l'intervento del 1823, quando le colonne
delle navate, per motivi statici, furono racchiuse in pilastri in muratura,
alterandogli equilibri spaziali dell'interno. A cavallo fra l'ottocento e il
novecento scavi e restauri hanno rimesso in luce la casa romana sottostante
e gli affreschi del Cavallini. Sulla piazza di Santa Cecilia si affaccia il
monumentale ingresso settecentesco al quadriportico, dubbiosamente attribuito
a Ferdinando Fuga; il quadriportico originario di accesso alla chiesa è
in realtà oggi un bel giardino al centro del quale è stato collocato
un grande vaso romano. Gli edifici sui due lati del giardino sono occupati a
destra da un monastero di suore francescane, a sinistra da un monastero di benedettine,
alle quali è affidata la basilica di Santa Cecilia. Il portico della
chiesa conserva sull'architrave un fregio musivo del XII secolo riccamente policromo,
dove sono raffigurate tra l'altro Santa Cecilia e altri santi e sante. Sotto
il portico molti monumenti funebri, tra cui spicca quello del cardinale Paolo
Emilio Sfondrati (m. 1618), opera di Girolamo Rainaldi, le cui sculture furono
eseguite su disegno di Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo. L'interno è
a tre navate di cui quella centrale particolarmente spaziosa e luminosa, separata
da quelle laterali dai pilastri che, come detto, racchiudono le colonne antiche,
intervento ottocentesco che per altro si intona con la sistemazione settecentesca,
sopratutto della volta, al cui centro è l'affresco con l'Incoronazione
di Santa Cecilia, eseguito da Sebastiano Conca nel 1725. La navata è
separata dal presbiterio da una splendida balaustra composta da marmi pregiati,
del 1600 circa. Oltre questa, il celeberrimo ciborio, capolavoro d'arte gotica,
opera di Arnolfo di Cambio, su cui è stata ritrovata la firma dell'artista
e la data del 1293. Sotto l'altare, il sepolcro di Santa Cecilia con la statua
della santa, opera di Stefano Maderno, che ne ritrasse il corpo così
come era stato ritrovato al momento degli scavi effettuati nel 1599, fatto che
produsse un enorme clamore. La santa, con il profondo taglio sul collo eseguito
dal carnefice e al quale sopravvisse tre giorni, accenna con le dita delle mani
al mistero della Trinità. Nel catino absidale è conservato il
mosaico dell'epoca di Pasquale I raffigurante il Redentore benedicente con,
a sinistra, i Santissimi Paolo e Cecilia, e Pasquale I (che sulla testa porta
il nimbo quadrato, a significare che era in vita al momento dell'esecuzione
del mosaico, e reca nelle mani il modellino della chiesa in offerta); a destra
i Santissimi Pietro, Valeriano e Agata. La basilica, nelle navate laterali e
nelle cappelle, è ricca di numerose altre opere d'arte, tra cui, a destra,
nell'ambiente del calidarium, dove Santa Cecilia, secondo la tradizione fu esposta
ai vapori bollenti prima della decollazione, due opere di Guido Reni, i Santissimi
Valeriano e Cecilia, e, sull'altare, la Decollazione della santa; sempre a destra,
la quattrocentesca cappella dei Ponziani, la settecentesca cappella delle reliquie,
opera del Vanvitelli, e una cappella col monumento funebre del cardinale Rampolla
del Tìndaro, scenografica composizione (1929). Dalla navata sinistra
si può accedere al chiostro romanico (XII secolo) del convento, e salire
al coro delle Monache, che corrisponde al sottostante vestibolo interno, dove
nell'anno 1900 è stato riscoperto il Giudizio universale di Pietro Cavallini,
massimo capolavoro della pittura medievale romana, eseguito intorno al 1293,
e che si situa nel momento di passaggio tra la grande tradizione bizantina e
la nascita della pittura "moderna" ad opera di Giotto. L'affresco
in origine si estendeva su tutta la controfacciata della chiesa insieme ad altri
sulle pareti della navata centrale, tra le finestre e le arcate del colonnato,ora
coperti dai rifacimenti settecenteschi e di cui si può vedere l'inizio
del coro. Negli anni in cui fu ritrovato il Giudizio universale, fu scavato
l'ampio complesso archeologico sottostante, al quale si accede sempre dalla
navata sinistra, un insieme di costruzioni che vanno dalla tarda repubblica
al IV secolo Dopo Cristo, in cui rimangono tra l'altro dei pavimenti in mosaico
bianco e nero. Dagli ambienti romani si può vedere la singolare cripta
neobizantina fatta costruire dal cardinale Rampolla del Tìndaro, su progetto
dell'architetto Giovan Battista Giovenale (1901), dove, da una finestrella sopra
l'altare, sono visibili i sarcòfaghi che racchiudono i corpi di Santa
Cecilia e degli altri santi qui seppelliti. L'antistante piazza di Santa Cecilia
conserva alcune case medievali, peraltro assai pesantemente restaurate nel nostro
secolo. "San Paolo fuori le Mura": 1277-1285
Purtroppo nulla è sopravvissuto della prima attività del pittore,
che intervenne nella decorazione ad affresco di San Paolo fuori le Mura, perduta
in seguito all'incendio che nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823 danneggiò
la basilica in modo gravissimo. Di tale decorazione rimangono soltanto copie
del secolo XVII, tra cui le più importanti sono quelle eseguite intorno
al 1634 per conto del cardinal Francesco Barberini, poi raccolte nel manoscritto
Barberino Latino, 4406 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Gli affreschi,
per i quali si presuppongono due fasi (una al 1277-1279, l'altra intorno al
1285), erano disposti lungo la navata centrale su due registri sovrapposti di
ventidue riquadri ciascuno. Sulla parete sinistra erano rappresentate scene
tratte dagli Atti degli Apostoli, con particolare riguardo a episodi della vita
di San Paolo; sulla parete destra scene tratte dall'Antico Testamento; qui il
pittore seguì le tracce di un ciclo preesistente e risalente forse alla
metà del V secolo (tanto che l'intervento di Cavallini è stato
definito più un 'restauro' che un'opera originale), di cui anzi conservò
un intero riquadro, riconoscendo pertanto, con coscienza critica desueta a quei
tempi, un singolare valore a quanto rimaneva dell'antica pittura. Sotto i riquadri
si stendeva una serie di ritratti papali entro clipei, mentre in alto, tra le
finestre, erano affrescate grandi figure di apostoli e profeti. Unici frammenti
superstiti dell'originale impianto decorativo sono alcuni clipei con i busti
di pontefici, oggi staccati e conservati nella Pinacoteca della basilica ostiense.
"Santa Maria in Trastevere". Un'opera
di sicura mano dell'artista è costituita dai sei episodi a mosaico relativi
alla vita della Vergine posti sotto il catino absidale di Santa Maria in Trastevere,
nonché dallo scomparto votivo con la Madonna tra i Santissimi Paolo e
Pietro ai cui piedi è il committente, il cardinale Bertoldo Stefaneschi,
domicellus alla corte pontificia. Nello scomparto dedicatorio, ancora nel secolo
scorso, era visibile una iscrizione con il nome dell'artista e la data, così
da rendere certa l'attribuzione al Cavallini. Il ciclo inizia da sinistra sulla
parete accanto all'abside con la scena della Natività della Vergine,
per proseguire nel catino con l'Annunciazione, la Nascita di Gesù, l'Adorazione
dei Magi, la Presentazione al Tempio,la Dormitio Virginis. Ogni scena è
commentata da una iscrizione metrica. Tutta la decorazione trasteverina poggia
sull'ordine e sulla misura, sulla semplicità monumentale della composizione
e sulla sua verosimiglianza; la costruzione dell'ambientazione abbandona i modelli
bizantini e si trasforma in qualcosa di reale, fatto di architetture e di spazi
vissuti e credibili. La tecnica del mosaico tende ad adeguarsi a quella dell'affresco:
usando filari di tessere minute, Cavallini mira a ottenere la stessa fluidità
della pennellata, modulando i colori in una serie di tenuissimi trapassi che
vedono contrapporsi alle note chiare nelle emergenze plastiche quelle scure
nelle profondità delle pieghe; si tratta di un evidente richiamo alla
grande arte paleocristiana in cui la ricchezza del panneggio era il mezzo per
rendere efficacemente la presenza corporea. Sulla questione della cronologia
dell'opera, si è sempre fatto riferimento ad una data letta nel secolo
scorso dal Barbet de Jouy (1251) e corretta dal De Rossi (1291) sul pannello
votivo che fu eseguito naturalmente alla fine del lavoro. Ma anche la datazione
al 1291 non trova la critica completamente concorde ; recentemente infatti è
stata espressa l'opinione che i mosaici di Santa Maria in Trastevere debbano
essere spostati più avanti, dopo l'esecuzione degli affreschi di Santa
Cecilia in Trastevere, vale a dire tra il 1293 e il 1300. Va infine detto che
a Cavallini è stato anche attribuito (ma senza fondamento) un 'restauro'
sul volto della Madonna Regina nel mosaico della calotta absidale del secolo
XII.
"San Pietro in Vaticano". Dice Vasari:
"Costui, dunque, essendo discepolo di Giotto, et avendo con esso lavorato
nella nave di San Pietro fu il primo che dopo li illuminasse questarte
e che cominciasse a mostrar di non essere stato indegno discepolo di tanto maestro
Dice Ghiberti: e vedesi dalla parte dentro sopra le porte 4 evangelisti di sua
mano, in santo Pietro di Roma di grandissima forma ..e due figure molto eccellentemente
fatte e grandissimo rilievo, ma tiene un poco della maniera antica cioè
greca". Della vecchia basilica nulla è rimasto tranne alcuni frammenti
di mosaico che rappresentano due angeli provenienti forse dalla navicella della
basilica che Giotto, secondo il Vasari, avrebbe dovuto eseguire, "ma la
fattura è così Cavalliniana che è comprensibile lidea
che Giotto si sia servito, non certamente di Cavallini assente da Roma, ma forse
dei suoi allievi ai quali affida le figure di contorno".
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